[Supplemento culturale del Sole 24 ore, 11 marzo 2012]
Le idee si pagano
A differenza di quanto accade nei
settori professionali in cui la progettazione è giuridicamente definita
ed economicamente inquadrata, in Italia, nel mondo delle industrie
creative e dei beni culturali, questo fenomeno si manifesta, per usare
un eufemismo, più di rado, quasi che progettare il palinsesto di un
festival, la stagione di un teatro, il concept di una mostra o lo
sviluppo di un museo siano giuochi da ragazzi. Non stupisca il
riferimento ludico: è opinione diffusa che la produzione d’idee non
richieda grandi sforzi, essendo il frutto di generazioni pressoché
spontanee, talora fonte di piacere, come accade quando si parla di
creazione, disseminazione e crossfertilization. E’ risaputo,
infatti, che nelle menti dei creativi le idee si formino per caso, tra
una sigaretta e un caffè, uno spritz e una chiacchera, un pisolino e un
filarino, un happy hour e un dirty weekend, addensandosi in nuvole
progettuali i cui piovaschi precipitano sui desktop Apple con la stessa
naturalezza con cui a Woolsthorpe Manor le mele si frangevano sul cranio
di Isacco Newton.
Ma se qualcuno gode e – colpa
inescusabile – si diverte pure, lo si dovrà pagare, se mancano i calcoli
strutturali che hanno orbato dinastie d’ingegneri o gli esecutivi che
hanno ingobbito sui tecnigrafi generazioni di architetti? La Cultura è
una vocazione (per eredi e rentier). Non bisogna lamentarsi se difettano
i mezzi del grande e del piccolo schermo (che remunerano le opere
dell’ingegno di sceneggiatori cinematografici ed autori televisivi), se
latitano i profitti della moda e del design (che adottano altri principi
di retribuzione e compartecipazione agli utili) e rimangono chimerici
gli anticipi riconosciti agli scrittori di rango.
Riassumendo: soldi pochissimi, ma vuoi
mettere la soddisfazione di vedere il tuo nome stampato su un flyer in
carta riciclata, accanto a titoli che riempirebbero d’orgoglio ogni
cuore di mamma: curatela, drammaturgia, soggetto, ideazione, progetto
di…
Le occasioni non dovrebbero mancare, in
un paese con circa 14.000 associazioni culturali, in cui ogni anno
vengono imbanditi 2.000 festival, inaugurate 10.000 mostre, organizzate
41.000 manifestazioni all’aperto e allestiti, secondo i dati SIAE del
2010, 141.000 spettacoli. Eppure, a dispetto di cotante cifre, la
progettazione non viene quasi mai pagata, configurandosi il più delle
volte come disinteressato e gratuito anticipo su eventuali future
realizzazioni: “quattro righe buttate giù per amicizia”, “senza
impegno”, per citare una ricorrente formula pre e paracontrattuale,
immancabilmente seguita dalla clausola di stile: “Poi, se si farà, ci
metteremo d’accordo.”
Senza scherzare oltre, è doveroso
riconoscere che tale abitudine non trova corrispondenza nei paesi più
civili, dove la progettazione è considerata una fase cruciale, il
fattore critico del successo di qualsivoglia iniziativa culturale, cui
dedicare il giusto tempo e riconoscere un idoneo compenso, con
stanziamenti di budget che sull’italico suolo non vengono riservati
nemmeno a talune fasi realizzative. Chiedete a un curatore straniero un
progetto espositivo o all’ideatore di un festival lo sviluppo di uno
spin-off editoriale: di norma non lo fanno gratis, ma esigono la giusta
remunerazione del tempo dedicato e il riconoscimento del loro ruolo.
Perché l’economia della conoscenza è diversa da quella della
riconoscenza.
Le idee servono e si devono pagare,
perché le competenze hanno un valore economico, perché una cattiva
progettazione figlia pessime gestioni, perché l’improvvisazione è una
dote canora ma un difetto caratteriale, perché esistono nuove
professionalità che, anche senza la rappresentatività di ordini
prestigiosi come quello dei farmacisti, sanno fare bene e seriamente un
lavoro assai più complicato di quanto si pensi.
Gli ostacoli che si frappongono alla
modernizzazione di un falso e peloso pseudomecenatismo sono molti; per
esigenze di spazio ne esaminerò due: la moratoria degli accessi/eccessi
universitari e l’inadeguatezza della committenza. Ogni anno, nel
Belpaese, si laureano migliaia di futuri “progettisti culturali”, a
fronte degli undici iscritti nella classe di “Scienze e tecnologie dei
sistemi di navigazione” (dato che illumina su taluni recenti fatti di
cronaca).
Siamo forti a santi e poeti, ma
scarseggiano i navigatori e sono in via di estinzione gli scienziati:
secondo l’ufficio Statistiche del MIUR nell’anno accademico 2010-11
erano immatricolati nella classe “Biotecnologie industriali” 313
studenti, lo 0,006% dei 48.423 arruolati nelle classi di Beni culturali,
Conservazione e restauro dei beni culturali; Conservazione e restauro
del patrimonio storico-artistico; Scienze dei beni culturali; Tecnologie
per la conservazione e il restauro dei beni culturali; discipline,
scienze e tecnologie delle arti figurative, della musica, dello
spettacolo, della moda e della produzione multimediale.
Se i 756 iscritti a Matematica non hanno pareggiato gli enrolled del minore tra i primi cinque fashion institutes
milanesi, c’è stato un fisico ogni dieci partecipanti ai casting del
Grande Fratello 12 (3.176 vs 30.000), un chimico ogni undici
partecipanti alle audizioni di X Factor (4.502 vs 50.000), un biologo
ogni dozzina di scienziati della comunicazione (1.956 vs
24.613). Ogni commento è superfluo. Rimane il fatto che decine di
migliaia di persone sono disposte a lavorare gratis, nella speranza di
vincere un giorno il gratta e vinci “cultura per sempre”.
Non meno delicata è la situazione della
committenza, pubblica e privata. Un progetto non è un capriccio: ha
bisogno di committenti consapevoli, esigenti e risoluti. Purtroppo, dopo
le scienze della Formazione (s’intende calcistiche: moduli pitagorici,
schemi difensivi e percentuali di realizzazione), la progettazione
culturale è il campo disciplinare in cui l’Italia vanta la maggior
concentrazione mondiale di cultori della materia. Dilettanti lenti nel
premettere che di contenuti espositivi o palinsesti teatrali non si sono
mai occupati in vita loro, ma lestissimi nell’ammollare gragnuole di
consigli, suggerimenti, paragoni.
Se pochi si sognano di suggerire a un
architetto, un editore, un regista come progettare un edificio, una
collana editoriale o un lungometraggio, chiunque progetti un museo
troverà centinaia di interlocutori pronti a spiegargli, in 5 minuti,
come farlo diversamente e meglio; chiunque progetti un festival riceverà
centinaia di segnalazioni riguardanti oratori imperdibili e temi
imprescindibili, quasi che dialogare pazientemente con decine di
soggetti assai eterogenei e coordinare le tante professionalità e
mentalità che gravitano attorno a simili iniziative fosse la cosa più
facile e semplice del mondo.
Ma non è forse vero che la cultura, sul
patrio suolo, si diffonde per simpatia? Che per progettare con senso e
serietà in campo culturale basta andare in viaggio di nozze in una delle
tante città d’arte: cinque giorni di furore, tra una copula e una
cupola, per far vedere ai parenti che nessuno in Italia, anche il più
somaro, può rimanere insensibile al fascino delle sue eterne beltà? Nel
dubbio si può sempre pescare nelle acque della televisione, in cui
galleggiano naufraghi e pirati di ogni sorta: se viene da lì dà maggiori
garanzie di professionisti con curricula di trenta pagine.
Per fortuna alcune imprese, le più
avvedute e innovative, hanno capito che solo riconoscendo dignità e
valore all’opera progettuale di questi nuovi soggetti, allergici alle
etichette ma capaci di saltare gli steccati sterili
dell’iperspecializzazione, è possibile portare idee e vita in campi
altrimenti condannati all’asfissia.
II.
La creatività, che impresa
“Le industrie culturali e creative, un
patrimonio da sfruttare.” Non è il claim dell’ennesimo master farlocco,
ma roba seria: il titolo del Libro Verde della Commissione Europea
licenziato il 27 aprile del 2010, che ha circoscritto un campo
altrimenti poroso e mutante, in cui operano omonime imprese.
Sulla carta posti fantastici, dove ogni
neo diplomato/laureato smart sogna di lavorare. Senza orari rigidi,
gerarchie castranti, riti inutili, divise penose e job description
ridicole. Senza la dedizione-totale-al-lavoro delle aziende
tradizionali, il ritmo forsennato delle professioni liberali, la
competitività steroidea delle società di consulenza, la retorica
oleografica delle multinazionali della creatività (oligopoli meno
credibili degli interiors IKEA).
Imprese in cui alle “strutture
societarie” si antepone l’attenzione per la Società, all’utile di
bilancio l’utilità sociale, al “dividendo” la condivisione, alla
specializzazione la specificità. Imprese dove il cappio del profitto non
soffoca il pensiero al bene comune, dove la gratuità è un valore e la
generosità non è un retaggio infantile, dove l’investimento in ricerca e
sviluppo non è pianificato in termini percentuali, ma è il sangue caldo
e misto che tiene in vita organismi in continuazione evoluzione.
Sulla carta posti fantastici.
Poi, nel day by day, le cose non vanno
così lisce, come si può evincere dal testo di Beniamino Saibene della
scorsa settimana: al diciassettesimo anno di attività il “leader di
mercato” Esterni fattura 1,6 ME e ha 14 dipendenti, con un’età media di
28 anni e uno stipendio medio di 1200 euro, il medesimo di un operaio
specializzato con una decade di anzianità.
Di fronte a questi numeri, il pensiero
che in futuro le imprese culturali e creative possano reggere il peso
della crescita italiana ed europea è irrealistico, se non vi saranno
radicali cambiamenti nelle policies comunitarie; esse rimangono
creature minuscole, gracili ed effimere, che sciamano come api
nell’ecosistema economico: succhiano il nettare dell’intelligenza e
impollinano le idee delle imprese, trasformando gli zuccheri della
creatività nel miele dell’innovazione.
Quasi sempre gratuitamente o a costi risibili, se parametrati alle fatture emesse dalle società di global consulting: il billing giornaliero di un senior partner vale una ghiotta commessa mensile di una startup creative.
Ma come le api operaie, queste imprese si fanno un culo a paiolo,
vivono una stagione e muoiono di fatica: per produrre un chilogrammo di
miele le api devono raccogliere circa 3 chilogrammi di nettare,
effettuando circa 60.000 voli, in ognuno dei quali devono suggere circa
100 fiori, coprendo in media 2,5 chilometri a 24 chilometri orari.
Pertanto, per produrre un chilogrammo di miele devono sucarsi 6.000.000
di fiori e percorrere 150.000 chilometri, pari a 3,75 giri del mondo.
Non è un’attività riposante e,
soprattutto, rimane collegata a cicli di vita specifici – di norma brevi
– e forme di convivenza peculiari. Negli alveari della creatività
prevale una diffusa allergia per le formule societarie tradizionali, a
causa dell’elevato turn-over del personale, della cronica
sottocapitalizzazione, della pluriattività come scelta – sovente
imposta, talora desiderata – di vita, della parzialità dell’ingaggio dei
singoli individui, del confine sempre labile tra profit e no profit,
libertà e free-riding.
Tuttavia chi sigla i contratti? Chi è
tenuto a pagare l’affitto? Chi è il legale rappresentante? Chi risponde
delle obbligazioni nei confronti di terzi? Chi ha la firma sul conto
corrente? Chi mette il suo nome su una polizza assicurativa? Chi diviene
il titolare di un brevetto? Per risolvere questi dilemmi è necessario
inventare nuove formule societarie e nuovi assetti istituzionali, lungo
il solco felicemente tracciato dal governo Monti, che ha identificato
nelle SSRL i veicoli ideali per consolidare le fondamenta legali e
abbattere costi di avviamento e gestione altrimenti proibitivi (una
prece: non discriminate gli over35, faticosamente sopravvissuti nei
perigliosi mari della creatività veleggiando su vecchie Srl o arcaici
studi associati).
Lo stesso discorso vale per le sedi
lavorative. Non servono uffici di rappresentanza: bastano un cesso,
piani di lavoro, sedute essenziali, prese elettriche e connessioni
veloci, serviti dai mezzi pubblici. Come ha ricordato Stefano Boeri la
scorsa settimana, per dimezzare i costi fissi e assicurare la
sopravvivenza di queste realtà basterebbe garantire la disponibilità di
spazi minimi, senza le pagliacciate degli scorsi anni, quando per
assegnare a prezzi di mercato qualche metro quadrato nella Fabbrica del
Vapore a Milano venne insediata una commissione internazionale di saggi
di cui facevano parte De Kerckhove e Maeda (dubito volassero low-cost).
Sino a martedì scorso (quando l’Agenzia
del Territorio ha comunicato la scoperta di un milione di immobili
fantasma) in Italia erano accatastati circa 12,8 milioni di edifici, di
cui 11,3 ad uso abitativo, per complessivi 120 milioni di vani, che
fruttano il record mondiale delle case sfitte, con il 24% sul totale
degli appartamenti, contro una media europea dell’11,8%. In siffatto
contesto trovare un tetto da mettere sopra la testa non dovrebbe essere
un’impresa proibitiva, anche se rimane il problema di scovare chi ti
finanzia, mentre cerchi qualcosa da mettere sotto i denti. Trovare
credito, con simili garanzie, non è facile e gli istituti bancari
italiani non conoscono mezze misure; dopo lustri in cui “fior di
imprenditori” come Zunino, Coppola, Tanzi, l’Einstein di Zagarolo e
compagnia cantante ottenevano linee di credito da sette zeri in 0,7
nanosecondi, oggi, “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”.
Peccato non sia la scritta burlona sul piatto del buon ricordo di una
scalcinata trattoria di paese, ma il payoff di una campagna che sta
garrotando migliaia d’imprese, solide e operanti in settori
tradizionalissimi, i cui fondamentali di bilancio sono più noti e
vetusti delle incisioni rupestri di Altamira o Lascaux.
Figuriamoci la gioia con cui il
responsabile fidi di una filiale del mediocredito artigiano cooperativo
di Brugola di Sotto può accogliere la richiesta di apertura di una linea
di credito o di accensione di un mutuo dei dieci fondatori di un hub
creativo, titolari di esclusive carte di debito Coop o ancor più
affidabili ricaricabili Bancoposta. Bella scenetta da sitcom comica, ma
in realtà c’è poco da ridere, perché è su questi scogli, alti come un
panettone di Pao, che vanno a infrangersi molte aspirazioni
imprenditoriali: se ti pagano poco e irregolarmente, se non sei nato
ricco trovare qualcuno che ti presti pochissimi euri diventa un’impresa
erculea.
Non va meglio con il private equity: i business angels tricolori non hanno la possente apertura alare e le spalle larghe degli esemplari californiani incarnati dal Warren Beatty di Heaven can wait.
Assomigliano piuttosto ai cherubini di tanta pittura
cinque-seicentesca: piccini, paffuti, con due alette da piccione e le
braccine molli e, soprattutto, corte. Un investimento di 40K è
sudatissimo da ottenere. Una nuova versione di business plan per ogni
1.000 euro addizionali. Ma il businessplanning è un eccitante
psicotropo, tra l’LSD e l’Amanita Muscaria: fa vedere mondi
meravigliosi, crescite portentose, profitti miracolosi. Assumerne dosi
massicce o andare in overdose, dal punto di vista medico-legale, è meno
pericoloso di calarsi un cartoncino o ingollarsi un peyote. Ma la
visionarietà non è la virtù imprenditoriale del terzo millennio?
Nessun commento:
Posta un commento