giovedì 21 giugno 2012

Le Idee si PAGANO

[Supplemento culturale del Sole 24 ore, 11 marzo 2012]

Le idee si pagano
A differenza di quanto accade nei settori professionali in cui la progettazione è giuridicamente definita ed economicamente inquadrata, in Italia, nel mondo delle industrie creative e dei beni culturali, questo fenomeno si manifesta, per usare un eufemismo, più di rado, quasi che progettare il palinsesto di un festival, la stagione di un teatro, il concept di una mostra o lo sviluppo di un museo siano giuochi da ragazzi. Non stupisca il riferimento ludico: è opinione diffusa che la produzione d’idee non richieda grandi sforzi, essendo il frutto di generazioni pressoché spontanee, talora fonte di piacere, come accade quando si parla di creazione, disseminazione e crossfertilization. E’ risaputo, infatti, che nelle menti dei creativi le idee si formino per caso, tra una sigaretta e un caffè, uno spritz e una chiacchera, un pisolino e un filarino, un happy hour e un dirty weekend, addensandosi in nuvole progettuali i cui piovaschi precipitano sui desktop Apple con la stessa naturalezza con cui a Woolsthorpe Manor le mele si frangevano sul cranio di  Isacco Newton.
Ma se qualcuno gode e – colpa inescusabile – si diverte pure, lo si dovrà pagare, se mancano i calcoli strutturali che hanno orbato dinastie d’ingegneri o gli esecutivi che hanno ingobbito sui tecnigrafi generazioni di architetti? La Cultura è una vocazione (per eredi e rentier). Non bisogna lamentarsi se difettano i mezzi del grande e del piccolo schermo (che remunerano le opere dell’ingegno di sceneggiatori cinematografici ed autori televisivi), se latitano i profitti della moda e del design (che adottano altri principi di retribuzione e compartecipazione agli utili) e rimangono chimerici gli anticipi riconosciti agli scrittori di rango.
Riassumendo: soldi pochissimi, ma vuoi mettere la soddisfazione di vedere il tuo nome stampato su un flyer in carta riciclata, accanto a titoli che riempirebbero d’orgoglio ogni cuore di mamma: curatela, drammaturgia, soggetto, ideazione, progetto di…
Le occasioni non dovrebbero mancare, in un paese con circa 14.000 associazioni culturali, in cui ogni anno vengono imbanditi 2.000 festival, inaugurate 10.000 mostre, organizzate 41.000 manifestazioni all’aperto e allestiti, secondo i dati SIAE del 2010,  141.000 spettacoli. Eppure, a dispetto di cotante cifre, la progettazione non viene quasi mai pagata, configurandosi il più delle volte come disinteressato e gratuito anticipo su eventuali future realizzazioni: “quattro righe buttate giù per amicizia”, “senza impegno”, per citare una ricorrente formula pre e paracontrattuale, immancabilmente seguita dalla clausola di stile: “Poi, se si farà, ci metteremo d’accordo.”
Senza scherzare oltre, è doveroso riconoscere che tale abitudine non trova corrispondenza nei paesi più civili, dove la progettazione è considerata una fase cruciale, il fattore critico del successo di qualsivoglia iniziativa culturale,  cui dedicare il giusto tempo e riconoscere un idoneo compenso, con stanziamenti di budget che sull’italico suolo non vengono riservati nemmeno a talune fasi realizzative. Chiedete a un curatore straniero un progetto espositivo o all’ideatore di un festival lo sviluppo di uno spin-off editoriale: di norma non lo fanno gratis, ma esigono la giusta remunerazione del tempo dedicato e il riconoscimento del loro ruolo. Perché l’economia della conoscenza è diversa da quella della riconoscenza.
Le idee servono e si devono pagare, perché le competenze hanno un valore economico, perché una cattiva progettazione figlia pessime gestioni, perché l’improvvisazione è una dote canora ma un difetto caratteriale, perché esistono nuove professionalità che, anche senza la rappresentatività di ordini prestigiosi come quello dei farmacisti, sanno fare bene e seriamente un lavoro assai più complicato di quanto si pensi.
Gli ostacoli che si frappongono alla modernizzazione di un falso e peloso pseudomecenatismo sono molti; per esigenze di spazio ne esaminerò due: la moratoria degli accessi/eccessi universitari e l’inadeguatezza della committenza. Ogni anno, nel Belpaese, si laureano migliaia di futuri “progettisti culturali”, a fronte degli undici iscritti nella classe di “Scienze e tecnologie dei sistemi di navigazione” (dato che illumina su taluni recenti fatti di cronaca).
Siamo forti a santi e poeti, ma scarseggiano i navigatori e sono in via di estinzione gli scienziati: secondo l’ufficio Statistiche del MIUR nell’anno accademico 2010-11 erano immatricolati nella classe “Biotecnologie industriali” 313 studenti, lo 0,006% dei 48.423 arruolati nelle classi di Beni culturali, Conservazione e restauro dei beni culturali; Conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico; Scienze dei beni culturali; Tecnologie per la conservazione e il restauro dei beni culturali; discipline, scienze e tecnologie delle arti figurative, della musica, dello spettacolo, della moda e della produzione multimediale.
Se i 756 iscritti a Matematica non hanno pareggiato gli enrolled del minore tra i primi cinque fashion institutes milanesi, c’è stato un fisico ogni dieci partecipanti ai casting del Grande Fratello 12 (3.176 vs 30.000), un chimico ogni undici partecipanti alle audizioni di X Factor (4.502 vs 50.000), un biologo ogni dozzina di scienziati della comunicazione (1.956 vs 24.613).  Ogni commento è superfluo. Rimane il fatto che decine di migliaia di persone sono disposte a lavorare gratis, nella speranza di vincere un giorno il gratta e vinci “cultura per sempre”.
Non meno delicata è la situazione della committenza, pubblica e privata. Un progetto non è un capriccio: ha bisogno di committenti consapevoli, esigenti e risoluti. Purtroppo, dopo le scienze della Formazione (s’intende calcistiche: moduli pitagorici, schemi difensivi e percentuali di realizzazione), la progettazione culturale è il campo disciplinare in cui l’Italia vanta la maggior concentrazione mondiale di cultori della materia. Dilettanti lenti nel premettere che di contenuti espositivi o palinsesti teatrali non si sono mai occupati in vita loro, ma lestissimi nell’ammollare gragnuole di consigli, suggerimenti, paragoni.
Se pochi si sognano di suggerire a un architetto, un editore, un regista come progettare un edificio, una collana editoriale o un lungometraggio, chiunque progetti un museo troverà centinaia di interlocutori pronti a spiegargli, in 5 minuti, come farlo diversamente e meglio; chiunque progetti un festival riceverà centinaia di segnalazioni riguardanti oratori imperdibili e temi imprescindibili,  quasi che dialogare pazientemente con decine di soggetti assai eterogenei e coordinare le tante professionalità e mentalità che gravitano attorno a simili iniziative fosse la cosa più facile e semplice del mondo.
Ma non è forse vero che la cultura, sul patrio suolo, si diffonde per simpatia? Che per progettare con senso e serietà in campo culturale basta andare in viaggio di nozze in una delle tante città d’arte: cinque giorni di furore, tra una copula e una cupola, per far vedere ai parenti che nessuno in Italia, anche il più somaro, può rimanere insensibile al fascino delle sue eterne beltà? Nel dubbio si può sempre pescare nelle acque della televisione, in cui galleggiano naufraghi e pirati di ogni sorta: se viene da lì dà maggiori garanzie di professionisti con curricula di trenta pagine.
Per fortuna alcune imprese, le più avvedute e innovative, hanno capito che solo riconoscendo dignità e valore all’opera progettuale di questi nuovi soggetti, allergici alle etichette ma capaci di saltare gli steccati sterili dell’iperspecializzazione, è possibile portare idee e vita in campi altrimenti condannati all’asfissia.
II.
La creatività, che impresa
“Le industrie culturali e creative, un patrimonio da sfruttare.” Non è il claim dell’ennesimo master farlocco, ma roba seria: il titolo del Libro Verde della Commissione Europea licenziato il 27 aprile del 2010, che ha circoscritto un campo altrimenti poroso e mutante, in cui operano omonime imprese.
Sulla carta posti fantastici, dove ogni neo diplomato/laureato smart sogna di lavorare. Senza orari rigidi, gerarchie castranti, riti inutili, divise penose e job description ridicole. Senza la dedizione-totale-al-lavoro delle aziende tradizionali, il ritmo forsennato delle professioni liberali, la competitività steroidea delle società di consulenza, la retorica oleografica delle multinazionali della creatività (oligopoli meno credibili degli interiors IKEA).
Imprese in cui alle “strutture societarie” si antepone l’attenzione per la Società, all’utile di bilancio l’utilità sociale, al “dividendo” la condivisione, alla specializzazione la specificità. Imprese dove il cappio del profitto non soffoca il pensiero al bene comune, dove la gratuità è un valore e la generosità non è un retaggio infantile, dove l’investimento in ricerca e sviluppo non è pianificato in termini percentuali, ma è il sangue caldo e misto che tiene in vita organismi in continuazione evoluzione.
Sulla carta posti fantastici.
Poi, nel day by day, le cose non vanno così lisce, come si può evincere dal testo di Beniamino Saibene della scorsa settimana: al diciassettesimo anno di attività il “leader di mercato” Esterni fattura 1,6 ME e ha 14 dipendenti,  con un’età media di 28 anni e uno stipendio medio di 1200 euro, il medesimo di un operaio specializzato con una decade di anzianità.
Di fronte a questi numeri, il pensiero che in futuro le imprese culturali e creative possano reggere il peso della crescita italiana ed europea è irrealistico, se non vi saranno radicali cambiamenti nelle policies comunitarie; esse rimangono creature minuscole, gracili ed effimere, che sciamano come api nell’ecosistema economico: succhiano il nettare dell’intelligenza e impollinano le idee delle imprese, trasformando gli zuccheri della creatività nel miele dell’innovazione.
Quasi sempre gratuitamente o a costi risibili, se parametrati alle fatture emesse dalle società di global consulting: il billing giornaliero di un senior partner vale una ghiotta commessa mensile di una startup creative. Ma come le api operaie, queste imprese si fanno un culo a paiolo, vivono una stagione e muoiono di fatica: per produrre un chilogrammo di miele le api devono raccogliere circa 3 chilogrammi di nettare, effettuando circa 60.000 voli, in ognuno dei quali devono suggere circa 100 fiori, coprendo in media 2,5 chilometri a 24 chilometri orari. Pertanto, per produrre un chilogrammo di miele devono sucarsi 6.000.000 di fiori e percorrere 150.000 chilometri, pari a 3,75 giri del mondo.
Non è un’attività riposante e, soprattutto, rimane collegata a cicli di vita specifici – di norma brevi – e forme di convivenza peculiari. Negli alveari della creatività prevale una diffusa allergia per le formule societarie tradizionali, a causa dell’elevato turn-over del personale, della cronica sottocapitalizzazione, della pluriattività come scelta – sovente imposta, talora desiderata – di vita, della parzialità dell’ingaggio dei singoli individui, del confine sempre labile tra profit e no profit, libertà e free-riding.
Tuttavia chi sigla i contratti? Chi è tenuto a pagare l’affitto? Chi è il legale rappresentante? Chi risponde delle obbligazioni nei confronti di terzi?  Chi ha la firma sul conto corrente? Chi mette il suo nome su una polizza assicurativa? Chi diviene il titolare di un brevetto? Per risolvere questi dilemmi è necessario inventare nuove formule societarie e nuovi assetti istituzionali, lungo il solco felicemente tracciato dal governo Monti, che ha identificato nelle SSRL i veicoli ideali per consolidare le fondamenta legali e abbattere costi di avviamento e gestione altrimenti proibitivi (una prece: non discriminate gli over35, faticosamente sopravvissuti nei perigliosi mari della creatività veleggiando su vecchie  Srl o arcaici studi associati).
Lo stesso discorso vale per le sedi lavorative. Non servono uffici di rappresentanza: bastano un cesso, piani di lavoro, sedute essenziali, prese elettriche e connessioni veloci, serviti dai mezzi pubblici. Come ha ricordato Stefano Boeri la scorsa settimana, per dimezzare i costi fissi e assicurare la sopravvivenza di queste realtà basterebbe garantire la disponibilità di spazi minimi, senza le pagliacciate degli scorsi anni, quando per assegnare a prezzi di mercato qualche metro quadrato nella Fabbrica del Vapore a Milano venne insediata una commissione internazionale di saggi di cui facevano parte De Kerckhove e Maeda (dubito volassero low-cost).
Sino a martedì scorso (quando l’Agenzia del Territorio ha comunicato la scoperta di un milione di immobili fantasma) in Italia erano accatastati circa 12,8 milioni di edifici, di cui 11,3 ad uso abitativo, per complessivi 120 milioni di vani, che fruttano il record mondiale delle case sfitte, con il 24% sul totale degli appartamenti, contro una media europea dell’11,8%.  In siffatto contesto trovare un tetto da mettere sopra la testa non dovrebbe essere un’impresa proibitiva, anche se rimane il problema di scovare chi ti finanzia, mentre cerchi qualcosa da mettere sotto i denti. Trovare credito, con simili garanzie, non è facile e gli istituti bancari italiani non conoscono mezze misure; dopo lustri in cui “fior di imprenditori” come Zunino, Coppola, Tanzi, l’Einstein di Zagarolo e compagnia cantante ottenevano linee di credito da sette zeri  in 0,7 nanosecondi, oggi, “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”. Peccato non sia la scritta burlona sul piatto del buon ricordo di una scalcinata trattoria di paese, ma il payoff di una campagna che sta garrotando migliaia d’imprese, solide e operanti in settori tradizionalissimi, i cui fondamentali di bilancio sono più noti e vetusti delle incisioni rupestri di Altamira o Lascaux.
Figuriamoci la gioia con cui il responsabile fidi di una filiale del mediocredito artigiano cooperativo di Brugola di Sotto può accogliere la richiesta di apertura di una linea di credito o di accensione di un mutuo dei dieci fondatori di un hub creativo, titolari di esclusive carte di debito Coop o ancor più affidabili ricaricabili Bancoposta. Bella scenetta da sitcom comica, ma in realtà c’è poco da ridere, perché è su questi scogli, alti come un panettone di Pao, che vanno a infrangersi molte aspirazioni imprenditoriali: se ti pagano poco e irregolarmente, se non sei nato ricco trovare qualcuno che ti presti pochissimi euri diventa un’impresa erculea.
Non va meglio con il private equity: i business angels tricolori non hanno la possente apertura alare e le spalle larghe degli esemplari californiani incarnati dal Warren Beatty di Heaven can wait. Assomigliano piuttosto ai cherubini di tanta pittura cinque-seicentesca: piccini, paffuti, con due alette da piccione e le braccine molli e, soprattutto, corte. Un investimento di 40K è sudatissimo da ottenere. Una nuova versione di business plan per ogni 1.000 euro addizionali. Ma il businessplanning è un eccitante psicotropo, tra l’LSD e l’Amanita Muscaria: fa vedere mondi meravigliosi, crescite portentose, profitti miracolosi. Assumerne dosi massicce o andare in overdose, dal punto di vista medico-legale, è meno pericoloso di calarsi un cartoncino o ingollarsi un peyote. Ma la visionarietà non è la virtù imprenditoriale del terzo millennio?

giovedì 14 giugno 2012

Tadelakt - la finitura marocchina -

Il Tadelakt è un intonaco tradizionale marocchino, con finitura brillante, morbida ed impermeabile, che può essere utilizzato su tutte le superfici. È un rivestimento che si trova tradizionalmente in Marocco all'interno degli hammam e dei palazzi. Rispetto ai nostri tradizionali intonaci differisce, sia per il suo impasto complesso a base di calce, sia per essere levigato a lungo con ciottoli di fiume o sassi fino all'ottenimento del suo aspetto morbido e fine con ondulazioni della superficie proprie della sua lavorazione, che gli conferisce particolari capacità decorative e alta impermeabilità all'acqua; infatti è utilizzato anche per la realizzazione di docce, vasche e lavabi. Qui di seguito descriviamo la nostra personale tecnica di realizzazione e manutenzione di questo tipo di superficie, elaborata e modificata in base alla nostra esperienza e ai materiali della nostra tradizione. Quando ci si appresta a realizzare una parete in Tadelakt, la prima cosa da fare, è ispezionare l’intonaco di fondo che deve essere privo di rappezzi con intonaci diversi, ben assorbente e senza polveri. In caso bisogna procedere con una mano di almeno 1 cm di nuovo intonaco di preparazione per avere un fondo ideale per la lavorazione (consigliato sempre per le pareti di grandi dimensioni). Queste operazioni sono necessarie per non avere difetti di asciugatura (che rendono difficile la levigatura con i sassi) e per evitare macchie e alterazione dei colori.Prima bisogna preparare tutto l’impasto necessario alla realizzazione, in modo da averlo disponibile senza perdere tempo durante la stesura. Infatti la pasta va stesa a fresco, in modo che la prima mano non sia asciutta quando si stende la seconda, e le tempistiche di questo passaggio si determinano solo in cantiere nel momento in cui si opera. La prima mano si stende con dei frattazzi di legno di dimensioni variabili a seconda della superficie da realizzare, la seconda con un frattazzo di plastica o di metallo cercando di lisciare la materia senza lasciare imperfezioni. A questo punto si lascia riposare qualche minuto la parete (deve essere in grado di assorbire) prima di stendere sulla superficie sapone disciolto in acqua e cominciare la lisciatura con il sasso. L‘intonaco ammorbidito dall'acqua e dal sapone deve essere pressato con dei sassi lisci con andamento circolare e continuo fino a che la superficie assuma un colore più scuro e un aspetto lucido con aree di chiaro-scuro tipiche di questa tecnica. Il nostro impasto per la realizzazione del Tadelakt è costituito da una miscela di calce aerea, polveri di marmo e sabbia, con l'aggiunta di argille naturali, olio di lino crudo e terre colorate.

mercoledì 30 maggio 2012

La casa su ruote

Per chi vuole approfittare del fascino della natura pero senza fare alcuna concessione sul comfort in cui siamo tutti abituati , in modo "glamping" come si dice, cioè il camping "chic & glamour", vi propongo un vera casa su ruote. Ovviamente arredo su misura, Materiali eco e Classe A.






mercoledì 9 maggio 2012

Complesso Monumentale del SS. Salvatore di Erice

Simulazione 3d dell'area esterna del complesso monumentale  del Santissimo Salvatore di Erice.
Elaborazione eseguita per la Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani.

Conserva resti del Palazzo Chiaramonte, poi monastero (1290). Nel 1290 il Conte Chiaramonte decise di cedere il palazzo dove risiedeva alle monache benedettine, primo ordine monastico ad insediarsi ad Erice





venerdì 10 febbraio 2012

Continuità & Trasparenze

Studio di Interior Design & Architettura - Arch. Orazio Sciuto
L'area di intervento è un piccolo appartamento nella periferia di Custonaci con vista su Monte Cofano. Si sviluppa su due livelli e per ottimizzare gli spazi si è preferito installare una scala elicoidale a sostituzione della vecchia scala a rampa rettilinea.
Per smaterializzare il volume della scala, si è proceduto svuotando le alzate, così da renderla comoda e trasparente. L'elica esterna ha un diametro di circa 180 cm ed è spatolata con una pasta color oro, per esaltare il senso dell'avvitamento. L'arredo segue linee essenziali, una sfera Ø 55 cm di luce bianco calda, una poltrona Barcellona e una stampa su tela modello galleria di dimensioni 70x100. Il pavimento è realizzato in parquet industriale con un notevole risparmio economico rispetto ai laminati, garantendo altresì una maggiore durevolezza.

martedì 31 gennaio 2012

MONOLOCALE very small

In questo periodo, in cui la crisi frena gli investimenti nel settore immobiliare, spesso vengono richiesti lavori di ristrutturazione dove occorre come prima regola contenere i costi. In questo lavoro, si è intervenuti in soli 35 mq, creando un appartamento per una giovane coppia. Gli ambienti sono stati ricavati in un ex-deposito, ricavando un'ampia zona living  in comunione con la veranda, una camera da letto e un bagno. La cucina è un elemento a sè che viene occultato con un pannello in legno, inoltre aprendo tutta la vetrata della zona giorno si incrementa di quasi il 30% la superficie interna.

Studio di Interior Design & Architettura - Arch. Orazio Sciuto

Studio di Interior Design & Architettura - Arch. Orazio Sciuto

Studio di Interior Design & Architettura - Arch. Orazio Sciuto


martedì 24 gennaio 2012

LA SCALA ELICOIDALE

Studio di Interior Design & Architettura - Arch. Orazio Sciuto

La scala elicoidale, molto simile alla classica scala a chiocciola, se ne differenzia per l'eliminazione della colonna centrale, garantendo la medesima resistenza strutturale. Le scale elicoidali hanno un forte impatto visivo, e restituisco all'osservatore un senso di leggerezza ed eleganza che non si ha nelle classiche scale a chiocciola con pilastro centrale. Storicamente, le scale a impianto circolare trovarono il loro maggiore impiego all'interno delle torri, delle colonne o nei pozzi.

Scala Elicoidale di Giuseppe Momo (1875-1940) del 1932, Musei Vaticani.

La scala elicoidale è conosciuta anche con il nome di scala coclearia, che in agli inizi del Cinquecento coinvolgerà i massimi architetti: da Bramante (la scala a vite nel Cortile del Belvedere in Vaticano) a Leonardo (lo scalone a chiocciola al centro del Castello di Chambord), ad Antonio da Sangallo il Giovane, con la doppia rampa del Pozzo di S. Patrizio a Orvieto.Le scale elicoidali, per la complessità delle casseformi di cui necessita per il getto del calcestruzzo, si preferiscono realizzarle in gradini prefabbricati da assemblare in cantiere. 
www.scaleindesign.com

lunedì 23 gennaio 2012

Lavabo ABISKO


Occorre sempre trovare il giusto compromesso tra la magia della forma è l'utilità dell'oggetto. Vi propongo un'altro lavabo dalle forme altamente organiche. Il Lavabo ABISKO ha una forma molto particolare e sono assenti i tubi di scarico, ma nonostante ciò, svolge a pieno la sua funzione.





venerdì 20 gennaio 2012

Less is more


 L’arredo minimal si distingue per il suo carattere estremamente pulito, concreto ed essenziale, privo di fronzoli e arricchimenti barocchi - leggero ed arioso, abbandonando le pesanti forme classiche - hightech, sfruttando materiali innovativi e sistemi all’avanguardia.
Per chi volesse imprimere un carattere sobrio ed elegante alla sua casa, la scelta di uno stile minimalista risulterà senza dubbio la soluzione più appropriata.
Qui lo spazio torna protagonista e, valorizzato dalla luce, liberato da inutili orpelli e decorazioni, rende giustizia all’architettura dell’interno, facendola respirare, restituendole libertà e supremazia.
Rifacendosi al miesiano “Less is more” (“nel meno c’è il più”) l’arredo minimal si libera degli eccessi, restituendo un’ambiente semplice, pratico e funzionale.
Chi vuol far rispecchiare nella propria dimora una personalità pragmatica, risoluta ed ordinata può dunque optare su colori neutri, forme lineari ed essenziali, materiali e soluzioni innovative, che integrino ricerca tecnologica, scientifica e concetti di domotica.
Cercate di alleggerire e liberare lo spazio abitabile disponendo pochi mobili, neutri e lineari, ma di estrema qualità, privilegiando elementi sospesi e strutture leggere, lasciando magari spazio ad un elegante oggetto di design o ad una scultura che catturi l’attenzione.
Linee pure, che non lasciano spazio a fronzoli; materiali omogenei ed uniformi, per superfici facili da pulire; colori insaturi, ridotti al minimo (black & white); toni neutri e elementi sobri, che ben si adattano a qualsiasi ambiente.